sabato 20 giugno 2020

Battaglia del Solstizio


Dopo l’arresto dell’offensiva del 1917 sul Grappa, lo stato maggiore austriaco sapeva che il tempo giocava a favore dell’Italia, perché l’effetto combinato della grave crisi economica indotta dal blocco e della progressiva dissoluzione politica dell’impero toglieva lentamente ma inesorabilmente le forze alla Duplice Monarchia. Pertanto, era esigenza vitale per l’Austria sferrare un colpo risolutivo all’Italia.
Già l’offensiva di Caporetto era stata voluta nella consapevolezza che il fronte isontino era giunto alle soglie della rottura e che un’altra offensiva italiana avrebbe portato al suo collasso. Una combinazione di fattori, dall’effetto sorpresa della tattica tedesca (non austriaca) la sfortuna ed alcuni errori dei comandi locali italiani (che disapplicarono le precise ed intelligenti direttive di Cadorna) condusse ad un successo imprevisto nelle dimensioni.
L’offensiva nel 1918 appariva però assai più difficile di quella del 1917. 1) gli austriaci questa volta avrebbero dovuto fare da sé, perché l’alleato germanico era impegnato a fondo in Francia. Le unità tedesche erano state assolutamente decisive nello sfondamento di Caporetto e questa volta sarebbero state assenti. La mancanza di queste divisioni, nettamente superiori alle controparti austriache sul piano tattico e tecnico, era incolmabile. 2) l’esercito austriaco era in condizioni peggiori sia come materiale sia umane. I soldati e gli animali erano denutriti ed i tessuti in fibra autarchica erano tali da rischiare di provocare abrasioni sulla pelle dopo brevi marce, mentre scarseggiavano i gas. Inoltre si avevano reparti indisciplinati e con il morale basso, quel che portò i tribunali militari austriaci a quasi 10.000 condanne pesanti ed a 93 giustiziati. 3) nel 1917 il fronte italiano era proiettato in avanti, come era giusto ed inevitabile che fosse, dato che il Regio Esercito si proponeva di sfondare il fronte nemico dal 1915, per cui si trovava in una posizione tattica e strategica inadatta alla difensiva. Invece, nel 1918 esso poteva appoggiarsi a nord su posizioni fortissime disposte sulla catena montagnosa del Trentino, a sud sulla linea del Piave. 4) nel 1917 al comando italiano era mancato il tempo per apprestamenti difensivi in profondità, perché, anche se sapeva dell’offensiva nemica, aveva avuto in pratica meno di un mese per prepararsi. Al contrario, nel 1918 il comando italiano ebbe quasi sei mesi di tempo a disposizione, ciò che consentì allestimenti difensivi creati con meticolosità ed un addestramento ad hoc delle truppe. 5) Nel Trentino e nella Venezia Giulia la deportazione di gran parte della popolazione italiana aveva ostacolato la raccolta d’informazioni da parte del comando italiano. Invece, nel Veneto invaso avevo potuto essere creata una rete spionistica assai ampia, grazie ai molti italiani che si prestarono a fare da informatori comunicando con il servizio informazioni italiane tramite piccioni viaggiatori. Il quartier generale del Regio esercito non era mai stato così bene informato sul nemico.
Lo stato maggiore austriaco aveva un problema militare difficile da risolvere e, come sovente avviene davanti alle difficoltà, si rivelò intellettualmente inferiore al compito. Il capo di stato maggiore era Arz, ma il vecchio capo, Conrad von Hoetzendorf, conservava un grande prestigio. Aveva il suo peso però anche il rivale Boroevic von Bojna. Il Conrad voleva realizzare un suo vecchio piano, già tentato nel 1916 con la “spedizione punitiva” e riproposto nel 1917 (fu rifiutato dallo stato maggiore germanico), di uno sfondamento partendo dal Trentino verso la pianura. Nel 1918 egli voleva colpire sull’altopiano dei Sette Comuni e sul Grappa e chiedeva per questo 34 divisioni. Se la rottura fosse avvenuta, le truppe italiane sul Piave sarebbero state colte di fianco e di spalle, con minaccia di un totale accerchiamento.
Boroevic era critico verso il piano di Conrad, perché, nonostante le prospettive in caso di successo fossero ottime, lo sfondamento appariva improbabile. Conrad si proponeva di colpire dove gli apprestamenti difensivi italiani erano massimi, vi era la maggiore concentrazione di truppe migliori ed il terreno era più favorevole alla difensiva. Il von Bojna invece voleva attaccare sul Piave, in direzione di Treviso.
Il capo di stato maggiore austriaco, l’indeciso e debole Arz, finì con l’accettare entrambe le proposte, disperdendo le forze offensive, per cui si sarebbero avute due linee d’attacco principali, una dal Trentino con epicentro sul Grappa, l’altra dal Piave in direzione di Treviso. La dispersione si aggravò con l’autorizzazione concessa ad operazioni diversive: una sempre sul fronte Trentino, che doveva attaccare in direzione di Bergamo, su di un terreno difficilissimo valicando il passo del Tonale; altre due sul Piave, una sul Montello a nord dell’azione principale, l’altra sulla foce del Piave, a sud dell’azione principale. In pratica, si sarebbe attaccato su quasi tutto il fronte.
Con queste premesse, i risultati furono conseguenti. L’offensiva secondaria in direzione di Bergamo, detta “operazione valanga” e che doveva sboccare dal passo del Tonale, abortì sul nascere, resa impossibile dalle montagne del Trentino occidentale in mezzo a cui avrebbe dovuto svolgersi. Dopo poche ore il comandante austriaco ordinò alle truppe di fermarsi. L’attacco fortemente voluto dal Conrad sull’altopiano di Asiago ed il Grappa fu menomato prima ancora che le fanterie scattassero da un violento e preciso fuoco di contropreparazione dell’artiglieria italiana. L’artiglieria della 6° armata, comandata dal generale Roberto Segre, scaraventò sugli imperiali decine di migliaia di proiettili di grosso calibro per cinque ore nel cuore della notte che precedeva l’offensiva. Cadorna aveva ordinato una simile operazione di contropreparazione nel 1917 a Caporetto, ma le responsabilità dei subordinati e la nebbia impedirono un’azione che avrebbe cambiato le sorti della battaglia. Nel 1918 l’artiglieria italiana martellò gli austriaci prima ancora che attaccassero, riducendo al lumicino le loro possibilità di successo. Emblematicamente, l’unico, piccolo risultato ottenuto dagli austriaci fu contro il modesto corpo di spedizione inglese, che ebbe una rottura locale. Ma nel complesso, la linea italiana tenne saldamente. Esauritasi la spinta offensiva imperiale, contrattacchi brevi e violenti condotti dagli arditi ripresero le posizioni del Col moschin e del Col Fagheron.
Sul Piave invece la situazione fu più critica e gli imperiali riuscirono a varcare in diversi punti il fiume, creando due grosse teste di ponte, sul Montello e dinanzi a Treviso. La difesa in profondità degli italiani, concepita da Badoglio e Caviglia (Diaz aveva una funzione principalmente politica e delegò ad altri il grosso dell’effettiva gestione delle questioni militari) e resa possibile dalla lunga preparazione durata mesi, però sfiatò e dissanguò gli assalitori.
Sulla riva del Piave era stata schierata una prima linea, ma buona parte delle truppe erano in posizioni assai più arretrata. A debita distanza dal fiume correva un’altra linea saldamente fortificata, mentre una serie di brevi linee trasversali fra le due principali creavano una serie di comportamenti stagni, utili in caso di rottura di un tratto del fronte avanzato. Completava lo schieramento una serie di punti di appoggi, come nidi di mitragliatrici, sparsi ovunque.
Il bombardamento austriaco decimò le truppe italiane collocate lungo il fiume e la fanteria riuscì ad ottenere alcuni sfondamenti. Una volta superato il Piave, le divisioni imperiali però si trovarono dinanzi alla seconda linea arretrata e rinserrate nelle linee trasversali. Il fiume inoltre ostacolava l’arrivo dell’artiglieria, senza cui non si poteva passare, e quello dei rifornimenti indispensabili. Mentre si trovavano in questa situazione critica, le artiglierie a lunga gittata italiane colpivano le retrovie del nemico ed i ponti, in maniera da strangolare l’afflusso dei rifornimenti. L’aviazione italiana, nettamente superiore a quella imperiale per quantità e qualità, dominava i cieli e contribuiva all’azione di usura bombardando i ponti, i pontoni ed i piccoli convogli di trasporto, mitragliando gli uomini.
Inoltre le mitragliatrici, collocate dal Regio esercito in nidi protetti, ma capaci di battere le strade, falciavano gli assalitori, che erano così spinti a dirigersi in mezzo ai campi, dove però s’imbattevano in ostacoli nascosti di ogni tipo.
I contrattacchi italiani furono scagliati quasi tutti contro le punte avanzate dell’esercito imperiale e regio, spegnendone definitivamente le capacità offensive. Si distinsero in particolare gli arditi, che subirono perdite altissime infliggendone però di peggiori ai nemici. Celebre è rimasta però la carica del reggimento dei Lancieri di Milano, che a Monastier di Treviso spazzò via i reparti più avanzati dell’esercito austriaco.
L’esercito imperiale cercò di resistere, aggrappandosi alle due teste di ponte, ma la situazione peggiorò lentamente ma inesorabilmente. Alcuni generali volevano ritirarsi, consapevoli del fallimento dell’attacco, mentre altri chiedevano una prosecuzione, consapevoli che una sconfitta sul Piave avrebbe segnato la sorte dell’Austria-Ungheria. Alla sera del 20 giugno apparve chiaro ormai a tutti che l’offensiva era fallita e che prolungarla avrebbe significato soltanto sprecare altre forze: l’imperatore stesso ordinò la ritirata sulla riva sinistra, che incominciò dal giorno seguente, il 21 giugno.
Nella battaglia del Solstizio, come la definì il D’Annunzio, l’impero aveva giocato tutte le sue ultime carte. La sconfitta bruciò le ultime risorse ed abbatté brutalmente il morale degli uomini e delle popolazioni ancora fedeli all’impero, che ormai non potevano fare altro che attendere l’inevitabile offensiva italiana.

lunedì 1 giugno 2020

Le Oche del Campidoglio

Fonte Wikipedia


L'avvenimento che vide come protagoniste le Oche del Campidoglio fa parte della storia di Roma; secondo la leggenda sarebbe avvenuto sul colle del Campidoglio nel giugno 390 a.C. 

Galli di Brenno assediavano Roma e cercavano un modo per penetrare nel colle.. Qui si erano rifugiati i romani che non erano fuggiti a Veio o a Caere all'arrivo degli assalitori. Il condottiero romano Marco Furio Camillo era in esilio ad Ardea a causa delle sue posizioni anti-plebee. Un messaggero, mandato dai romani di Veio prima a Roma e poi ad Ardea per richiamare il generale, era riuscito ad entrare sul Campidoglio nonostante l'assedio. Avendolo seguito, i Galli stavano per riuscire, nottetempo, a entrare nel Campidoglio. Un'altra fonte, invece, parla di un cunicolo sotterraneo scavato dagli assedianti. La leggenda narra che le oche, unici animali superstiti alla fame degli assediati perché sacre a Giunone, cominciarono a starnazzare rumorosamente avvertendo del pericolo l'ex Console Marco Manlio e i romani assediati. Marco Manlio venne per questo episodio denominato Capitolino.
L'assedio fu respinto e l'imminente arrivo di Camillo cominciò a ribaltare le sorti della guerra a favore dei romani: i Galli cominciarono a subire le prime sconfitte mentre l'esercito del condottiero avanzava da Ardea. Gli assedianti cercarono quindi un compromesso: a fronte di un tributo pari a mille libbre d'oro, questi avrebbero tolto l'assedio. I romani, al momento di pagare, si accorsero che le bilance erano truccate e, alle loro rimostranze, Brenno, in gesto di sfida, aggiunse la sua spada alla bilancia pretendendo un maggiore peso d'oro e pronunciò la frase «Vae victis («Guai ai vinti!»). Qui la tradizione narra un secondo episodio leggendario: mentre i romani chiedevano tempo per procurarsi l'oro che mancava, Camillo raggiunse Roma con il suo esercito. Una volta di fronte a Brenno, gli mostrò la sua spada e gli urlò in faccia: «Non auro, sed ferro, recuperanda est patria» ("Non con l'oro, ma con il ferro, si riscatta la patria").